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 MUSEO TEO ARTFANZINE # 25 - IL LUME DELLA RAGIONE - MAGGIO 2008


 Formato 15 x 21. Progetto grafico [artisto]
Giovanni Bai, Carolina Gozzini, Luciana Pinto, Luigi Fagioli, Nicoletta Meroni, Mario Tedeschi, Pietro Veneroni, Marco Viganò, Roberto Cascone, Giovanna Licordari, Luca Santiago Mora e Atelier dell'Errore, Chiara Giannangeli,  Bruna Orlandi

IL LUME DELLA RAGIONE

 

«Il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune» diceva Alessandro Manzoni. «Ci basterebbe l’intelligenza. Quella normale, media…» gli faceva eco, nel 1994, Museo Teo che, come recitano le biografie ufficiali, «da sempre, in risposta al progressivo degrado della metropoli, cerca di cogliere i fermenti che emergono dai progressivi mutamenti dell’agire sul territorio, stimolando una rete di relazioni creative in cui siano combinate la produzione di socialità e la produzione di senso». Bene assai raro è, di questi tempi, il lume della ragione. Ma forse solo in apparenza; perché altrimenti ci affanneremmo - con tanti altri, certo – a cercarlo nei luoghi più disparati (il correttore automatico non lo cambia in disperati, ma andrebbe bene lo stesso)?

Opera, Museo Teo, per «favorire la diffusione di una cultura sociale delle immagini, prestando attenzione ai rapporti con il pubblico non specializzato e con le forme d’arte al confine dei circuiti tradizionali», per dare impulso a una produzione artistica che sia ricca di senso oltre che di bellezza. Eppure lo fa in situazioni dove il disagio, sia esso psichico piuttosto che sociale, è un elemento determinante; lo fa perché la sua cifra è di agire «sempre in contrapposizione a ogni forma di cristallizzazione artistica e culturale», in quanto crede nella creatività come risorsa fondamentale.

 I fatti della vita (della morte no, mai dei miracoli sì) hanno portato sangue napoletano nelle vene di Museo Teo; inevitabile allora approfondire il legame con una città che tanto ha in comune e tanto differisce dalla città in cui viviamo, proprio a partire da quel disagio che sembra essere uno dei motori del nostro agire. Ma sempre inteso come attivatore di vitalità e di scambi creativi, si tratti di istituzioni psichiatriche, scuole di cinema o gallerie d’arte.

Le linee guida del progetto attorno a cui stiamo lavorando muove infatti dall’esperienza del disagio di una città come Milano che, come tutti i luoghi umani è una rete di relazioni che rischia di frantumarsi in modo irreversibile. «Milano e Napoli, città dei lumi, sembrano aver perso il lume della ragione, trasformando il sogno in incubo: Milano ha rovesciato l’etica in corruzione, Napoli corrompe i corpi nei macelli di camorra» affermiamo nel manifesto teorico-poetico del progetto. Il disagio è nel vivere la frattura della linearità dei rapporti culturali e sociali, dell’apparire piuttosto che dell’essere e quello ben più drammatico di una mancanza di etica tout court. Se «tutto è rovesciato» allora il nostro lavoro deve partire da qui, «rovesciando l’apparenza, facendo apparire il nascosto: lo specchio riflette e trasforma il dolore nella bellezza della rappresentazione». Ma non certo nella ricerca del compiacimento, piuttosto dell’energia per il rovesciamento. Come «i gruppi di artisti con cui lavoriamo esprimono, nel disagio di esistere, la potenza di luci, il desiderio di altro non ancora conosciuto. Da illuminare», così vogliamo superare il problema non con il descriverlo, ma nel dare voce alla contraddizione attraverso le forme dell’arte. L’artista è sempre più interprete del sociale: di Guernica ce n’è una sola, ma riprodurre un mitra o esporre le foto dei caduti in Iraq non basta, i documentari di Moore non saranno mai Ladri di biciclette. Il problema è la mancanza di una traslazione creativa, la mancanza della trasposizione della problematica sociale in linguaggio dell’arte. Lo può fare una foto di giornale, difficilmente lo potrà un telegiornale: gli artisti sono tali perché sono più avanti e, condividendo la drammaticità degli eventi, cercano di narrarne il percorso di ricerca e di liberazione.

Nel frattempo i nostri percorsi si sono incrociati con quelli di una città come Shanghai, che rappresenta – a fronte della immobilità della metropoli in cui viviamo – la velocità impressionante della trasformazione. E la presenta nella forma della follia distillata, anzi sparsa a piene mani, dei grattacieli addossati uno all’altro, del traffico delle sopraelevate, della rincorsa alla imitazione del peggio dell’occidente, contrapposti alle frotte di mendicanti, di senza casa e senza diritti.

Ecco che qualcosa si muove dalle nostre parti: a Milano viene assegnata l’EXPO del 2015 e si festeggia con una patetica festa di strapaese, mentre alcuni non trovano di meglio che criticare i grattacieli storti. E allora che cosa fa Museo Teo? Come risponde ai casi più clamorosi di occultamento della ragione sotto i cumuli della monnezza? Nel suo piccolo, con la voce dell’ironia, attivando un osservatorio permanente dei comportamenti secondari nelle periferie milanesi. E se l’aspetto interiore è schiacciato dall’etica sociale delle modalità dell’apparire, allora tra centro e periferia il disagio compie un viaggio trasversale e l’intimitàdelle mutande giaguare assume una valenza sociale. Perché anche i panni stesi ci parlano di differenze di genere, etnie, cultura, caratteri: «i panni sporchi si lavano in casa propria, ma si stendono fuori, una volta lavati», oltre il telegiornale.

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